Questo racconto è tratto dall' intervento al convegno "Come e perchè scegliere l'asilo nido" . La dott.ssa Serena Bontempi, coordinatrice della struttura I nidi nel nido, ci mostra quante cose si possono trovare dentro a un solo disegno e cosa significa per una mamma ed un bambino, lasciarsi e ritrovarsi ogni giorno.
Giovanni è un bambino che
all’epoca della produzione del disegno che vedete aveva due anni e 4 mesi.
Da parecchio tempo, un po’ meno di due anni, frequentava il nido. Infatti era stato inserito dalla sua mamma all’età di 8 mesi, piccolissimo. La mamma e il papà erano stati da subito piuttosto sicuri della propria decisione di mandare Giovanni al nido. Nonostante ciò la mamma, specialmente nei primi periodi, si dimostrava preoccupata di lasciare il suo bimbo e
Ma veniamo al disegno.
Quello che vedete è un disegno
prodotto con pennelli piuttosto grossi e colori a tempera. Il foglio viene
messo dalle educatrici in verticale attaccato al muro ad altezza bimbo e i
bambini, in piedi di fronte al foglio, possono lavorare il colore a loro
piacimento attenendosi ai margini del foglio.
Il foglio misura cm 118 per cm 84. E’ dunque ampio ma comunque impegnativo per un bambino di due anni che
maneggia un grosso pennello.
Dai tratti ampi e continui e
dalle sovrapposizioni di colore che vediamo nel disegno del bambino, possiamo
immaginare con quanto vigore e passione Giovanni si sia dedicato a questa sua
opera e come però allo stesso tempo si sia impegnato a rispettare i bordi
imposti dai margini del foglio. Qualche sbaffo di colore in basso e in alto
pare sfuggire dal foglio.
Il disegno è centrato e occupa la
maggior parte dello spazio.
Giovanni ha lavorato con
continuità alla sua produzione per circa 20 minuti alternando e sovrapponendo i
colori.
E poi ha dichiarato: “finito”.
A quel punto F., educatrice che
seguiva i bambini durante le pitture, gli ha chiesto:”Vuoi dirmi quello che hai
disegnato?”
Giovanni allora, puntando con il
dito singolarmente le due macchie di colore ha detto semplicemente “mamma” ,
“papà”.
Ancora F. ha chiesto a Giovanni:
“ e cosa fanno mamma e papà?”
Giovanni: “ sono al lavoro”[…]
Come molte sere alle 17.30 è
arrivata anche la mamma Giovanni. Ha visto il disegno, ha parlato con
l’educatrice e con Giovanni della giornata appena trascorsa e di come era stato
bello disegnare e di come era bello il suo disegno.
E poi se ne sono andati.
Il giorno dopo però la mamma di
Giovanni mi ha cercata, voleva dirmi una cosa che, visto il tono introduttivo,
evidentemente la turbava.
Mi raccontò che vedendo il
disegno di Giovanni il giorno prima, al figlio aveva fatto dei complimenti, ma
dentro di sé si era sentita molto male. Quel disegno, secondo lei, era
rappresentativo dell’abbandono che il bambino provava. Ogni giorno. E per cosa
poi? Per il lavoro! “ Povero mio figlio!” era stata la sua conclusione.
Ho pensato che a questo punto la
sua preoccupazione meritava di essere presa in considerazione e assieme abbiamo
fatto una riflessione sui significati del disegno di Giovanni ma anche su
quelli inerenti la sua lettura personale della cosa.
Giovanni aveva lavorato al suo
disegno con molto piacere, dedizione e grande concentrazione e il risultato,
nei termini di una lettura significativa della sua produzione, ci diceva delle
cose importanti e molto positive rispetto al percorso evolutivo di Giovanni.
Innanzi tutto il bambino dimostrava di avere solidamente nella sua mente
un’immagine profonda e sicura delle sue figure genitoriali. Le due macchie
distinte di colore ce lo testimoniavano. A quelle macchie aveva lavorato a
lungo, con più colori. Inoltre i molti tratti delle due macchie che si
incrociavano e toccavano parlavano anche del legame affettivo esistente tra i
due coniugi che il bambino aveva compreso e rappresentato efficacemente. Ma
l’aspetto sicuramente più significativo e profondo era forse proprio dato da
quella breve frase che il bambino aveva pronunciato e l’educatrice riportato:
sono al lavoro. Con quella frase Giovanni ci faceva capire di essere in grado
di pensare ai suoi genitori lontani. Il pensiero è la funzione complessa che ci
determina come persone, persone pensanti, questo era Giovanni. Quando la mamma
non c’era più, perché era uscita per andare al lavoro, Giovanni era in grado
ogni giorno di richiamarla alla mente, rappresentarla, ricordarla, immaginarla.
E proprio questo aveva fatto in quel disegno: un’evocazione affettiva. Aveva
sentito dentro di sè la potenza del legame affettivo, del suo legame affettivo
con la sua mamma e con il suo papà. E lo aveva dichiarato rappresentandolo con
i suoi tratti da pittore. Ogni giorno e ogni volta che ne sentiva il bisogno
poteva farlo attraverso le capacità di rappresentazione simbolica a disposizione
di un piccolo essere umano che cresce. Soprattutto giocare, ma anche appunto
disegnare, e, come avevamo sentito dalla sua dichiarazione, parlare, ascoltare
e raccontare.
Quando chi ami non c’è lo pensi,
questo ci aiuta molto
Quando chi ami e che sai che ti
ama non c’è lo evochi, lo rappresenti
per ricreare l’effetto di quell’amore.
Insomma il disegno di Giovanni, e
come lui lo aveva prodotto, ci diceva che tutto andava bene per il bambino e
che il legame con i suoi genitori era positivo e solido.
[…]
Di chi era allora il turbamento?
Chi era la persona che si sentiva
“povera”?
Il silenzio della mamma e la sua
crescente emozione mi facevano capire che la riflessione fatta assieme la stava
toccando profondamente.
Mi disse allora quanto spesso
ancora si sentisse in colpa la sera se faceva tardi al lavoro.
Quanto l’idea che Giovanni fosse
quasi sempre uno degli ultimi ad uscire non la facesse stare tranquilla.
Vedere quella frase, sono al
lavoro, sul foglio del disegno di suo figlio aveva materializzato lo spessore
del suo dispiacere quotidiano, del suo conflitto quotidiano, delle sue
difficoltà di separazione da questo bambino che cresceva.
Era la sua lettura del disegno,
la lettura di se stessa che si sentiva in conflitto.
Le considerazioni che assieme
eravamo riuscite a fare erano emotivamente difficili per la mamma ma molto
importanti soprattutto per gli aspetti della separazione che sembravano, per
lei, essere ancora parzialmente irrisolti. Eravamo
riuscite, riflettendo insieme, a separare gli stati emotivi del bambino
da quelli della sua mamma.
Essere lontani fisicamente, non
vedersi per lunghe ore sicuramente non è sufficiente per definirsi separati.
La presa di coscienza della
diversità dei propri sentimenti rispetto a quelli dell’altro è invece un passo più
lungo verso una separazione consapevole e che conduce ad aspetti evolutivi per
entrambi i partecipanti alla relazione.
Questo indubbiamente aveva fatto
Giovanni quando nel suo disegno aveva rappresentato i suoi legami affettivi,
lontano dalla presenza dei genitori, dichiarandoli a se stesso con creatività e
soddisfazione personali.
Un altro ambiente diverso da
quello familiare ma anch’esso comprensivo, contenitivo e accogliente, quello
cioè creato dalle educatrici del nido, aveva permesso che ciò accadesse.
Infatti Giovanni, tutelato nei
suoi equilibri emotivi, si era sentito sicuro di potersi esprimere senza essere
sottoposto a giudizi. E così aveva fatto.
Per la mamma invece riuscire a
riflettere sul fatto che Giovanni stesse abbastanza bene l’aveva fatta
incontrare con il suo malessere.[…]
Una cosa veramente importante
poteva aiutarla nell’accettare la separazione da suo figlio e i conflitti che
ne derivavano: quella produzione grafica così significativamente profonda era
la creazione di un bambino che si sentiva chiaramente amato e che aveva della
doti creative interessanti. Quel bimbo era suo figlio e quella che lo amava era
lei.
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